Gucci Fest è giunto al termine, la serie non serie di Alessandro Michele e Gus Van Sant è finita e dunque vi tocca la mia riflessione a riguardo.
Ci ho pensato, non ci ho pensato, lo scrivo o non lo scrivo.. ma si che lo scrivo. Dopotutto i nodi vengono sempre al pettine.
Però partiamo dall’inizio:
Alessandro Michele, in una conferenza via Zoom, vestito a modo suo, aveva annunciato un esperimento mai tentato finora: presentare la nuova collezione (durante il primo lockdown ha deciso che non vuole più suddividerle nelle scadenze di primavera-estate, pre-fall, cruise, ma farne solo due all’anno e genderfluid) dal nome Ouverture of Something that Never Ended, in un solo film diviso in sette episodi, presentati come un festival cinematografico, il GucciFest, appunto.
Visibile da tutti ovunque, parola quest’ultima che piace a chiunque, un pò come genio, che personalmente non mi sento di attribuire a Michele, come il 99% delle persone fa riferendosi al citazionista.
Come in un vero festival, ha dato spazio a 15 nomi nuovi della moda: Ahluwalia, Collina Strada, Rui, Gui Rosa, Bianca Saunders, Shanel Campbell, Mowalola, Rave Review, Cormio, Stefan Cooke, JordanLuca, Boramy Viguier, Yueqi Qi, Gareth Wrighton, Charles de Vilmorin.
Nomi scelti da lui e dal suo staff «per festeggiare una festa di lucciole», insetti che da Pasolini in poi sono evocati per richiamare la speranza nel buio della vita.
«Le loro scie erratiche e luminose compongono, infatti, una danza d’amore che si staglia contro il buio. Il loro incedere sprigiona bagliori di desiderio e di poesia capaci di nutrire la vita anche nei momenti più cupi», ha scritto in una lettera aperta, citando anche il filosofo Georges Didi-Huberman, che non conoscevo, dunque grazie Alessandro Michele.
Un’operazione gigantesca, in cui ha radunato tutte le star della cultura, della filosofia, della musica. E naturalmente del cinema, visto che a co-firmare la regia Michele ha convocato Gus Van Sant, indimenticabile regista dalla produzione discontinua, che ha comunque firmato capolavori come Belli e dannati, Elephant, Milk.
Gli episodi sono sette e all’interno di ognuno c’è un ospite.
Dal filosofo e attivista transessuale Paul B. Preciado (dove “B.” sta per Beatriz, dal genere femminile che gli era stato assegnato alla nascita e che poi ha rifiutato) ad Achille Bonito Oliva, in una surreale conversazione telefonica con Harry Styles sui rapporti tra arte-moda-atto creativo. Da Billie Eilish (ripresa a Los Angeles da Harmony Korine, altro regista-culto del direttore creativo), al drammaturgo Jeremy O. Harris. Dalla poetessa e cantautrice Arlo Parks alla popstar sudcoreana Lu Han, dalla cantante Florence Welch all’artista multidisciplinare Ariana Papademetropoulos, e altri ancora.
Protagonista unica della serie Silvia Calderoni, nome di punta del teatro d’avanguardia italiano.
I più attenti però avranno notato un’altra chicca: l’omaggio di Gucci al cinema neorealista italiano, quando era impossibile realizzare film in presa diretta e quindi, ci arrangiava con gli attori che c’erano, spesso non bravissimi e fuori sincrono con il labiale sullo schermo.
Anyway, da Instagram alle conferenze stampa via Zoom, il megaprogetto faceva già pregustare una tappa in più nel suo percorso creativo pur coerente con quello già intrapreso: passare dal consueto, stantio atteggiamento della società contro la moda alla moda contro la società.
Mai così contaminata con pareri, opinioni e punti di vista lontani tra loro, mai così politica e destinata a disseminare il mondo con messaggi di inclusione, diversità, affrancamento dai generi e dalle convenzioni, la collezione di Gucci Ouverture si presenta come un’opera aperta in cui non c’è né fine né inizio e in cui i vestiti sono relegati sotto la voce “costumi”.
«Sono i costumi della vita», ha spiegato Michele, rincarando la dose nella lettera aperta: «Che vita hanno i vestiti quando smettono di sfilare? Quali storie sono capaci di disegnare nello spazio dell’esistenza? Cosa accade loro quando si spengono i riflettori della passerella? Sono le domande che vengono a farmi visita in questo presente incerto ma gravido di premonizioni».
Ma a quale vita fa riferimento il direttore creativo di Gucci? Se questa è una storia in cui non succede niente ma intende dispiegare quei momenti di magia i cui strani incantesimi costellano la nostra quotidianità, di che quotidianità stiamo parlando?
La Roma dove si muove la protagonista non esiste, Gucciland non esiste, è finta.. senza Covid, senza tecnologia: non ci sono (o quasi) cellulari né computer, si va in posta per spedire le cartoline da spedire con un francobollo carino.
È una capitale dove si vive una realtà diminuita, onirica e nostalgica, per una città che Michele vorrebbe che fosse e forse lo vogliono anche i suoi fan più accaniti. Tant’è vero che alla fine Silvia s’imbatte in una porta e si ritrova in un teatro. Era tutta fiction, come ne il Truman Show.
Del resto, in una scena del primo episodio, Silvia fa volare dal balcone un abito stampato con il motivo floreale Bloom della maison: si tratta di un abito-replica della collezione donna autunno-inverno 2015, la prima che il designer ha realizzato per Gucci.
E in altri episodi si rivedono capi già noti, elementi che sono parte integrante della collezione Ouverture ma appartengono sempre al suo primo défilé nel 2015.
«Questi capi presentano un’etichetta rossa ricamata con la scritta Something That Never Ended», dicono i comunicati stampa, e allora, la domanda è la seguente: se è vero che nella moda il tempo scorre più in fretta rispetto al normale, bastano cinque anni a creare il vintage di noi stessi?
Quanto tempo occorre perché qualcosa, da nuovo diventi iconico tanto da volerlo desiderare ancora? Cinque anni sono sufficienti o no? Il messaggio poi si estremizza ancora di più nel sesto episodio, quando la protagonista va in un vero negozio di vintage, però arredato con tutti i capi delle precedenti collezioni di Michele e si commuove davanti a una pelliccia rosa a motivi Chevron del 2015.
Siamo noi a essere ossessionati dal nuovo a tutti i costi oppure bastano cinque anni a storicizzare una tendenza, un gesto, un modo differente di fare le cose? Va bene il supercitazionismo, ma arrivare all’autosupercitazionismo, funziona? Quello che sorprende e fa riflettere – ed è cosa buona e giusta se qualcosa ci costringe a pensare – è che in una cornice talmente innovatrice e progressista, sembra sia esaltata una bellezza prudente che va in netto contrasto col metodo fugace a cui Alessandro Michele ci aveva abituato.
Non dimentichiamo che comunque Gucci è un’azienda che produce beni di lusso destinata, in teoria, a milioni di persone.
Michele ha progettato un’estetica del frammento che ha davvero rivoluzionato il mercato dei Millennials, tutta giocata sugli spiazzamenti di significato, sugli accostamenti scellerati, su un disordine controllato che connetteva le diverse fasi del suo fare creativo.
Del resto, lui non ha mai creato moda ma ha giocato con le sostanze materiali ed espressive della moda unendo in un mix di passione ed emotività i desideri scombinati tramite configurazioni che creano illusioni di contemporaneità.
Ma se è così mi chiedo: perchè in Ouverture non sentiamo l’urgenza di scavalcare il bello e il brutto, il buon gusto e il cattivo gusto, il kitsch e lo chic.
Soprattutto in un momento in cui la pandemia deve far affiorare desideri di qualcosa che non si sa di voler possedere finché non li vediamo.
E se li abbiamo già visti?
«Questo è il modo in cui lavoro: rubo, riutilizzo, metto l’etichetta sbagliata sulla faccia sbagliata. In effetti, è un modo per dare forma a un concetto di libertà», dice Alessandro Michele.
Ma è vera libertà quella di riproporre capi e oggetti già noti e ancora presenti in molti guardaroba? Dico io.
Qui un dubbio mi assale: non è che all’interno di una confezione così forte a livello comunicativo, Gucci questa volta abbia scelto di non uscire dalla sua comfortzone (di nuovo) e dunque abbia deciso di ripararsi sotto l’ala della sicurezza dell’oggetto-moda?
Forse non conosceremo mai le risposte a tutte queste domande, ma a giudicare dal successo sui social, questa sfilata atemporale è votata a un presente immaginario che si mischia col passato rifiutando il futuro e respingendo la profondità o per dirla in modo più conciso: dopo aver macinato miliardi con pre collezioni dubbie e capsule ancor più dubbie adesso rallenta il ritmo perché altrimenti sembra l’unico che non fa niente. Credo che Alessandro Michele abbia un superIO che si agita tra Mecenate e casa di Jared Leto. Autocelebrazione e marketing, nessuna rivoluzione e questo mi dispiace perchè…